lunedì 18 agosto 2014

Solo un omonimo Tibbets

Il tempo è sereno, nuvole non se ne vedono per chilometri e chilometri, in cielo.
Ho nascosto con finta rigidità da militare la mia paura. Mi hanno affidato questa missione per le mie capacità, per la mia destrezza alla cloche...
Per loro ero perfetto alla missione.

Ho aspettato una settimana prima di poter salire sull'aereo più cattivo del mondo, il più misantropo, il diavolo con le ali.
La settimana peggiore della mia vita.
Mentre aspettavo di ricevere l'ok per la missione, riflettevo su cosa stavo per fare. Pensavo senza posa per ore e ore, sembrava che il tempo si fosse fermato intorno a me per permettermi di capire sempre più a fondo.
Fredde relazioni scientifiche, termini impronunciabili, conclusioni assurde da comprendere appieno... non pretendevo di capire tutto, infatti non ho capito molto. E quello che ho letto mi ha solo confuso di più. Passò la settimana e arrivò il momento adatto per salire sul mio aereo che ho sempre tanto amato. Ieri gli ho dato il nome di mia madre, sentivo di doverle qualcosa nella mia vita, qualcosa di importante, grande, maestoso; volevo che il suo nome potesse bussare al Paradiso per chiedere pietà della mia anima.

Quella settimana mi aveva cambiato. Solo, completamente solo, facendo finta che il mondo fuori dalla mia stanza non esistesse, riuscivo a comportarmi normalmente, a pensare razionalmente.
Fra la gente che non sapeva quello che io sapevo mi sentivo a disagio, nascondevo le lacrime a fatica, vedevo tutti morti, i corpi dilaniati.
Sono arrivato davanti all'aereo e ho letto il nome che gli ho dato. E me ne sono vergognato. Non sfiorerò Dio, o se lo farò sarà perché mi colpirà con un calcio. Il capitano rispiega l'ultima volta il nostro compito, io non riesco a concentrarmi sulle sue parole; la mia attenzione è tutta volta al trattenere le lacrime che ancora mi restano in corpo e al mantenere la sicurezza del militare.
E ora sono qui.
Fa caldo due volte, stamattina.
Una volta perché è Agosto. Chissà che starà facendo ora mia moglie, starà giocando con nostro figlio? Starà sistemando i fiori in giardino?
La seconda volta fa caldo perché alla fine, l'ho fatto. Ho premuto il pulsante, ho ceduto ai miei superiori, ho lasciato che mi entrassero nel cervello, ho dato loro il tacito consenso per pestare i miei pensieri, cancellare le mie idee, torturare il mio volere. Sembrava che in cielo ci fossero due splendidi soli estivi, forti, caldi, abbaglianti.
Prima di virare e fuggire come un codardo ho guardato dietro di me.
L'urlo più umano del mio corpo, anzi, disumano, mi voleva abbandonare. Per la radio avrebbe corso e raggiunto i miei superiori, ma loro non hanno più orecchio né per l'umano che per il disumano. Sono uomini-macchine, con circuiti e bulloni al posto del cuore e del cervello... vuoti.
La gente muore, non lascia nemmeno traccia della sua esistenza. Sui muri restano delle ombre nere, sagome dimenticate da chi non ha nemmeno avuto il tempo di realizzare che stava morendo. La morte è così rapida che le ombre non riescono a tenere il passo dei corpi a cui sono destinate.Restano sui muri che fanno spallucce e non sanno più a quali piedi attaccarsi per continuare a muoversi. Così restano immobili.
Case vuote, quelle che restano ancora in piedi, tristi e svuotate dei bei rumori della vita. Tante altre, invece, danno la loro parte per formare una distesa enorme di nulla e desolazione più assoluta. Ci siamo evoluti per millenni per arrivare al punto in cui basta meno di un minuto per cancellare tutto. Il tempo di premere un bottone e di sentire il fischio della bomba che cade.

Quello che parla, signori, non è il Paul Tibbets che ha premuto il tasto senza remore. Sono il suo lato oscuro, paradossalmente; sono la sua parte buona, quella che ha cercato di non far accadere tutto ciò, la parte che l'educazione militare ha solo represso, ma non ucciso.
Oggi, 6 Agosto 1945 ore 8:15 sono diventato un assassino della peggior specie.
Da qualche parte in America vale ancora la pena di morte ed io, da solo, il Paul Tibbets che l'educazione militare ha messo in carcere, mi ci condanno senza possibilità di ripensamento. La sedia elettrica mi avrà dopo che avrò trascritto le mie ultime volontà.

Lascio in eredità a questo mondo il mio ultimo racconto, che è anche la confessione di ciò che ho fatto contro l'umanità, e lascio a voi questo corpo, quest'altro Tibbets che io disconosco.
Lascio in eredità al mondo l'uomo che più disprezzo e che più mi disgusta. Lascio a voi l'uomo, se di uomo ancora si può parlare, che dirà di non aver mai avuto ripensamenti riguardo quest'alba rossa, mi tiro fuori da questo cervello lobotomizzato, abbandono qui questo cane che voi chiamerete sui giornali "Paul Tibbets".

Firmato "Solo un omonimo Tibbets"

Un momento dopo aver virato e acquistato velocità, dopo aver sganciato il Little Boy, il colonnello Paul Tibbets sentì un acuto dolore alla testa, si toccò la tempia destra con noncuranza e proseguì con la manovra di allontanamento.
Per un brevissimo attimo, poco prima di avvertire quel dolore lancinante ma davvero molto poco persistente, sentì nella sua testa delle parole pronunciate con la sua voce con tono misto fra rabbia e disperazione, poi quel dolore intenso ma forte come una scarica elettrica. Poi nulla di simile gli accadde mai più in vita sua.
Il colonnello rientrò alla base insieme alla sua squadra e non si disse mai dispiaciuto per quello che aveva appena fatto.

Era un male necessario.