venerdì 28 agosto 2015

Da' a me, riva.

Da' a me, riva
la tua accoglienza
per le navi di ferro e pensieri alla deriva;
aiutami a tenere le braccia aperte
verso la marea
e verso ciò che mi porta.
Da' a me, riva
il tuo sorriso
per chi stanco su di te arriva;
dammi la forza di sollevarli tutti
i tuoi figli
e di metterli nei loro letti.
Da' a me, riva
la tua sabbia
per essere dolce letto a chi prima senza cuscino dormiva;
tienimi il cuore caldo
il vento infame
mi vuole spegnere.. ecco ora è calato.
Da' a me, riva
un giaciglio dove trascorrere questa notte
piena di vento
piena di dubbi
piena di sogni
piena di stelle.
Ecco, riva,
ti pago l'affitto coi miei occhi
ti conto tutte le stelle nel cielo nero di questa notte
e se poi m'addormento, coprimi e perdonami.
Riproverò domani.

giovedì 27 agosto 2015

Fil di ruota

 Le vele erano gonfie e felici di seguire il vento, non rifiutavano la frizzante brezza marina che soffiava. Il vento soffiava con dolce insistenza e scompigliava i capelli lunghi e castani di Alessandro, che di tanto in tanto cercava di riordinare con una mano. Una giornata perfetta per uscire in mare con la sua modesta barca a vela.
Alessandro puntava all'Isola di San Pietro e non mancava molto ormai, era già in navigazione da un'ora circa.
Vide arrivargli incontro il profilo della costa, la spiaggia, la vegetazione. Un gabbiano volò con lui per qualche secondo, poi gli virò davanti e riprese la sua strada verso l'alto, verso il sole, le nuvole; quanto sarebbe piaciuto ad Alessandro avere un paio d'ali.
Il sole splendendo dritto sopra di Alessandro, segnava le due del pomeriggio, nessun'ombra si allungava attorno alla barca.
Il vento lo permetteva, Alessandro ci voleva provare e si sentiva tranquillo: voleva mettersi col vento in poppa, a fil di ruota. Spostò il timone con un lento movimento di braccio, ma costante, per arrivare dolcemente ad avere il vento completamente sullo specchio di poppa. Mosse il fiocco e fece in modo che fosse dal lato a dritta della barca, lasciando che la randa rimanesse lì di fronte a lui. Lascò le vele quel che bastava e iniziò a sentire il caldo sulla pelle, che fino a quel momento era mitigato dal vento che lo rinfrescava prendendolo lateralmente. Ora sarebbe bastato un minimo errore per perdere quell'andatura, la più difficile di tutte.
La Oceano, come aveva deciso di chiamare la sua barca, era una modesta bagnarola a vela da tre o quattro posti, ma governabile anche da soli nelle giuste condizioni atmosferiche. Un giocattolino che gli aveva regalato lo zio, la stessa barca che da piccolo per la prima volta lo aveva portato a solcare il mare e che aveva imparato a governare proprio grazie allo zio, approfittando del tempo libero che le vacanze da scuola gli lasciavano quando il mese di Aprile iniziava a finire.
Alessandro si stava godendo la pace del lieve planare della Oceano sul mare, un silenzio liquido che giusto ogni tanto si sentiva gorgogliare più forte quando prendeva un'onda un po' più alta.
Lo zio di Alessandro, zio Mario, gli diceva sempre "questa qui non ha bisogno di motore per correre, ha bisogno di un motore per fermarsi!", mentre dava una pacca allo scafo, sorridente. Il nome allora fu facile da scegliere per Alessandro: se non posso fermarla, la lascio andare fin dove vuole: l'oceano è casa sua, e io la voglio chiamare così, Oceano.
Lo sguardo di Alessandro era stato rapito dal gabbiano che poco prima lo aveva seguito, e che ora stava tornando indietro verso la barca. Volò proprio sulla testa di Alessandro, poi accelerò e andò verso la costa.
Ecco, la costa.
La mente di Alessandro si affollò di mille pensieri: il lavoro, gli amici, i parenti, gli appuntamenti, le scadenze, il passato e il futuro. Tutto era lì, ad aspettarlo sulla costa per saltargli di nuovo addosso. Ciascuno di quei pensieri aveva una sua maschera grottesca e paurosa, poteva vedere quelle facce deformate dalla collera, dall'ansia, dalla paura, sempre meglio man mano che si avvicinava alla costa. Il dolore era ora l'unica ombra che si allungava su Alessandro, era una condanna da vivere passo su passo sulla terra ferma. Angoscia, quanta angoscia sentiva Alessandro premergli il petto!
Non poteva respirare, si sentiva circondato da quella massa di pensieri e paure, li sentiva venirgli sempre più vicino fino a mettergli le mani al collo. Cercava una via di fuga nella sua testa da quella sensazione di oppressione, così contrastante con il senso di libertà che il mare gli aveva dato fino a quel momento. I suoi occhi vagavano disperati e senza una meta, sbattevano contro le pareti del cervello e rimbalzavano all'esterno, restituendo al viso di Alessandro uno sguardo iniettato di sangue e indomita ansia.
Alessandro iniziò a sentire il vento andargli di lato, aveva spostato troppo il timone e perso il fil di ruota, quella delicata andatura che lo faceva andare così rapidamente.
Sul fil di ruota, Alessandro aveva perso un equilibrio più importante di quello che gli teneva il vento in poppa; un equilibrio che lo aveva mantenuto sereno fino a quel momento, un equilibrio che lo distaccava dai suoi problemi e che lo stava, infondo, solamente preparando alla velenosa vista della costa. I suoi problemi erano più grandi di quanto ricordasse, più spaventosi, minacciosi. In fretta e furia assecondò la Oceano, che voleva strambare per fermarsi e mettere la prua al vento, ma la corresse con maestria e la portò ad andare col vento di traverso, così che il vento gli venisse dritto sulla faccia.
Si perse per strada un paio di lacrime e tanta sofferenza, ma il mare non lo abbandonò mai, lo riportò alla sua riva di partenza, sulla spiaggia davanti casa sua, l'unico luogo che i suoi problemi non riuscivano mai a raggiungere: troppo traffico anche per loro, o forse la stradina in cui abitava Alessandro non è sulle loro carte.. O forse era solo l'effetto dei tanti più numerosi bei ricordi che aveva in quella casa.
Si gettò sul letto dopo aver mischiato troppe volte la vodka con l'acqua tonica e le lacrime, e sì getto sul suo letto come si getta un sacco della spazzatura: senza pensar troppo a cosa si sta facendo e con un lieve senso di schifo, di sudicio, sporco.
Ore dopo Alessandro si svegliò in posizione fetale, il cuscino bagnato di lacrime e forse saliva o qualche rigurgito alcolico. Andò in bagno, si tolse di dosso la maglia, gli slip e aprì l'acqua.
Si stese nella vasca e aspettò che l'acqua tiepida lentamente lo ricoprisse. Prese a lavarsi con gesti lenti e meccanici, forzati quasi.
Improvvisamente lo rapì un lieve sonno, giusto un attimo che gli chiuse gli occhi e lo fece restare come in trance, adagiato con la schiena al lato della vasca. Sentì il corpo sbandare di lato, un vento inesistente soffiargli sul viso. E in un attimo quel vento immaginario che gli aveva fatto frescura sul viso lo riportò alla realtà.
Schiuse le labbra e disse, a metà fra quel sogno così leggero e la realtà, una frase che solo le sue stesse labbra riuscirono a sentire per quanto parlò piano. Disse soltanto "Non lasciarmi mai".
Poi il sonno lo strinse di nuovo nel suo abbraccio e Alessandro non fece resistenza.
La vasca intanto continuava a riempirsi senza controllo e la stanza si allagava dell'acqua a cui Alessandro fece la sua preghiera.
L'acqua, di tutta risposta, iniziò a sembrare salata ad Alessandro che si sentì, in cuor suo, rispondere con un dolce "Eccomi". Poi l'acqua che scorreva senza controllo si tolse le scarpe e prese ad adagiarsi attorno alla vasca più in silenzio.
Quella ascoltò il sogno dell'equilibrio che Alessandro tanto cercava standosene zitta, in terra. Qualche goccia diceva alla vicina tutta preoccupata che quello che lui sognava era difficile, quasi impossibile da ottenere. Equilibrio? Stabilità? Sarebbe stato come andare a fil di ruota con la Oceano, e senza timone per di più!
Ma la saggezza dell'acqua veniva sempre a galla e mai evaporava, nemmeno sotto il sole più cocente.
Quell'acqua rimase così in terra, ad ascoltare il sogno di Alessandro.
Il sogno sul fil di ruota.

giovedì 23 luglio 2015

E che la luce sia!

Il tramonto arrivava con il suo abbraccio dorato sulla scogliera, carezzava le cime degli alberi, faceva risplendere le finestre delle case affacciate sul mare. Alessandro camminava lungo il sentiero di ghiaia a ridosso della scogliera a piedi nudi, senza curarsi dei ciottoli e delle pietre che gli facevano male; soltanto talvolta si fermava per togliersi un sassolino fastidioso che gli faceva del male, poi riprendeva a camminare.
Mentre camminava, Alessandro vide due gabbiani rincorrersi in cielo e sorrise. Pensò di farsi un bagno, ma non voleva rompere quell'ordine perfetto che aveva la superficie immobile dell'acqua, preferì guardare seduto su uno scoglio ancora un po' i gabbiani che si rincorrevano; si sedette sulla scogliera.
In lui, però, s'accresceva un senso di tenebra, di freddo dolore, come se una lama ghiacciata gli stesse tagliuzzando l'anima, e più il sole calava più questa tenebra lo permeava. Dapprima questo senso di cupo dolore era un lieve fastidio al petto, poi iniziò a diffondersi in tutto il corpo, come se fosse pompato dal cuore in tutte le direzioni, ovunque ci fosse anche solo una goccia di sangue. Il sole continuava a calare, il suo tuffo nell'orizzonte era quasi a metà.
Alessandro continuava a seguire i gabbiani, fin quando non si adagiarono in acqua. Si alzò lentamente dopo essersi sistemato la piega ai jeans e fu in quel momento che si meravigliò dell'ordinario; fissò, rialzandosi, la sua ombra. Sentì una fitta al petto quando la mise a fuoco stando in piedi, gli sembrava il corpo di un alieno: così esile, allungata, slanciata...
Provò a vedere l'ombra come semplice fenomeno fisico, ma non poté trattenere la sua fantasia: perché l'ombra è proprio nera? Forse, pensò, l'ombra è bianca quando nasciamo e noi la sporchiamo camminandoci sopra coi nostri stessi passi, ma anche con i nostri cattivi pensieri.
Alessandro allora prese il suo quadernetto e iniziò a pensare ad ogni passo che aveva fatto sulla sua ombra, ad ogni piccola lite, pensiero cattivo che aveva fatto. Lentamente sentì un peso sull'addome farsi comunque più insistente, pressante. La scrittura si fece più stretta, confusa, la pancia era contratta e il respiro era confuso e affannato come dopo un pugno preso proprio sotto lo sterno.
Le fitte scuotevano così tanto il suo corpo dalla testa ai piedi, che Alessandro si lasciò andare in un lievissimo pianto di dolore: nulla di evidente, appena una o due lacrime, ma erano cariche di amarezza, dolore, rimpianto, rabbia, così tanto cariche di sofferenza che avevano perso il lieve sapore di sale che hanno le lacrime.
Al calar del sole, l'ombra di Alessandro tornava ad essere un tutt'uno con lui e tutta la sofferenza che aveva raccolto durante la giornata, tutto quello che aveva raccolto e che la avevano resa nera e scura, lo feriva sempre più nel profondo man mano che il sole cedeva il passo alla sera ed al buio.
Quando l'ultimo raggio di sole aveva trafitto gli stanchi occhi grigi di Alessandro, l'ombra si era completamente riunita al corpo del suo padrone. Per un attimo il dolore aveva smesso di esistere, poteva respirare ancora, il petto si gonfiava senza dolore, il cuore batteva sollevato.
A salvare Alessandro da quello strazio era stata l'illuminazione pubblica, che debolmente aveva separato di nuovo l'ombra e Alessandro.
Ricacciati dentro, anzi fuori, quei momenti di strazio e dolore, quelle fitte di ansia e angoscia, Alessandro poté camminare di nuovo verso la sua moto. Ora camminare era diventato però uno slalom fra i bagliori dei pali della luce, non voleva restarne lontano più. Alessandro avanzava a lunghi passi nella direzione dalla quale era venuto, ma non ce la faceva ancora a correre: era come se si fosse reso conto solo in quel momento del peso che i suoi muscoli trascinavano ogni giorno, sentiva che avrebbe potuto lanciarsi giù da un ponte e affogare usando come peso anche solo la sua ombra, se avesse potuto, perché sarebbe bastata.
Alessandro arrivò alla moto qualche minuto più tardi, infilò di fretta il casco, mise in moto e partì veloce verso casa. Il vento gli spazzava via dal viso delle lacrime che sembrava volessero fuggire dai suoi occhi senza un motivo apparente, così lui accelerò per non sentirle staccarsi dal viso.
Percorreva la strada sgombra, ormai, senza sapere a cosa pensare. Si ritrovò davanti casa mezz'ora dopo con la convinzione che il tempo si fosse fermato, completamente svuotato da ogni emozione e colorito in viso. Aprì la porta di casa, andò in soggiorno e si lasciò cadere sul divano ancora tutto vestito.
Con gli occhi fissi al soffitto, Alessandro rimase a pensare a lungo, poi prese il suo quadernetto dallo zaino e iniziò a scrivere mettendosi a sedere al tavolo.

"Oggi mi hanno pugnalato, ma senza usare un coltello. Mi hanno insultato, ma senza parole. Mi hanno fatto piangere, ma senza farmi spendere lacrime per loro. E io ho fatto lo stesso con altri, ho sporcato la mia ombra, l'ho pestata, malmenata, torturata.. e lei mi ha punito, stasera, tornandomi dentro all'imbrunire. Lo stupore della sera, della luna e delle stelle alte in cielo dopo il tramonto ancora non mi abbandona: riaprire gli occhi dopo tanta sofferenza restituita è come essere penetrati da un freddo cucchiaio che ti svuota la pancia, ma che ha la sadica idea di lasciarti soffrire, così si muove lentamente dentro di te."

Poi Alessandro iniziò ad addormentarsi, come cullato dai suoi pensieri, e finì col poggiare la fronte sulle pagine del suo quadernetto trasformandole in cuscini.
L'ombra, commossa, lo vide addormentarsi sulle carte e si tolse le scarpe, si slegò un attimo dai piedi di Alessandro solo per potersi avvicinare di più al suo viso. Alessandro riposava tanto dolcemente che la sua ombra non volle disturbarlo entrandogli nei sogni, preferì lasciarlo riposare.. era stata cattiva con lui, gli aveva mostrato il lato crudele e pieno di sofferenza della natura dell'uomo. Ora toccava al sogno risanare certe ferite del cuore e dello spirito, ora toccava al cuore ripulire il sangue da quella amarezza che lo aveva pervaso, contaminato, avvelenato.
L'ombra si stese ai piedi di Alessandro e gli tornò legata, dormiva anch'essa.
E poi sarebbe toccato alla vita risvegliare Alessandro il mattino dopo, con un raggio di sole che lo avrebbe colpito dritto in faccia per fargli sorridere di nuovo al cielo, facendogli sentire quel tepore simile alla forza; avrebbe sentito di nuovo vivo il sangue sotto la sua pelle.
E che luce sia!

lunedì 20 luglio 2015

Un sorriso del cielo è il pianto di un uomo

Alessandro si ritrovò coi pensieri e con gli occhi a vagare fra miliardi di stelle, steso a terra sulla sabbia fredda. Gli occhi sbattevano contro un aereo di passaggio ogni tanto; qualche insetto gli si posava sul viso, sulle braccia, sulle gambe, e lui lo scacciava.
Alle stelle poteva fare qualsiasi domanda, in qualche modo il loro brillare sapeva gli avrebbe risposto. Scelse le parole con cura, non vole
Schiudendo le labbra dopo minuti di silenzio, mormorò appena con la voce impastata dal sonno la semplice domanda "Dove sei, amore?".
Le stelle tremarono tutte insieme, scrollarono le spalle. La nonna gli diceva sempre che se due amanti guardano la stessa stella, anche se sono a chilometri e chilometri di distanza, possono sentirsi come seduti vicini, possono sfiorarsi con le mani, guardarsi quasi negli occhi se proprio in quel momento la luna piena li nota mentre si cercano in qualche angolo di cielo, e li avvicina.
Ma in quella sera, come in tutte le altre sere, non trovò una stella che gli rivolgesse un sorriso, che gli desse una risposta. Quella domanda restò ancora una volta senza risposta. 
I lampioni nel giardino di una villa vicino al mare rischiaravano qualche metro di sabbia, quanto bastava perché Alessandro potesse vedere cosa aveva attorno. Si alzò, e da sdraiato passò a stare seduto con la schiena contro il muricciolo della villetta coi lampioni, per godere di più di quella luce. La bottiglia di rosso che s'era portato dietro da quando era uscito dalla sua villetta sul mare era sempre più vuota, il fondo era sempre più visibile. Riusciva a scrivere appena poche parole, poi strappava il foglio dal suo quadernetto e gettava via quella bozza. Sentiva le guance sempre più rosse e calde, lo scuoteva un po' la tosse, ma lui si preoccupava di più della penna e delle stelle.
In mezzo alle sue righe che si riempivano a tratti di parole d'odio, a tratto di parole d'amore, compariva la parola "stelle" con una cadenza preoccupante. Stelle, stelle, che volete da me? Dai voi volevo una risposta sola, trovare due occhi che guardassero dove guardo io.. e tremate, invece.
Erano le 3 di notte, o forse è più giusto dire di mattina, che Alessandro si abbandonò un poco sulla sabbia, lasciò il blocco e la penna. Una pioggia di stelle cadenti si staccò dal manto della notte e fece il suo carosello davanti agli occhi di Alessandro, lasciandogli dentro un certo senso di pace.
Un'ora dopo, forse due, Alessandro dormiva sulla sabbia. Scrisse qualche riga che ebbe solo la forza di strappare dal blocco per appunti, ma che gli sfuggì via con un soffio di vento dalle mani quando cadde, esausto, in un dolce sonno. Ora c'è un foglio bianco e spiegazzato, pieno di disegni e ghirigori, che vaga per le strade del centro, per i cieli grigi della città.

"Una stella cadente mi ha detto, venendo verso terra, dove sei. Mi ha guidato qui dove l'avrei vista cadere per segnalarti prima ancora che chiedessi al cielo, per l'ennesima notte, dove tu sia. E ti ho vista rispendere nella luce fioca del tuo telefono, mentre scrivevi alla tua amica di aver visto una stella cadente. Ti ho vista bene, ti verrò a prendere domattina. Non so come farò, non so dove sarai, dove sarò io, ma adesso che ho visto una pezzo di cielo lanciarsi nell'atmosfera, morire per dirmi dove sei, sono pronto a tutto, anche a farmi guidare dal cuore alla cieca. Ora che ho visto sorridermi il cielo, piango di gioia; supererò ogni tipo di corrente che mi allontani da te, ho disegnato il tuo profilo sulla sabbia ormai, la mia memoria non lo scorda. Già mi immagino la scena; tu davanti a me, io che ti rincorro e ti fermo dal braccio, sussulti e ridiamo insieme un po'. Adesso quest'amore è tutto quello che mi contiene. O forse è solo il delirare di un mezzo ubriaco..
Il rumore della luce di un lampione che scoppia, frammenti di plastica a terra. Sarebbe più poetico se a cadere fossero pezzetti di vetro, ma per questa notte di plastica, con la luna così tonda, e bella, da sembrare fatta da un orefice, forse va anche bene così. Fra un pensiero e l'altro, una fantasia e un'onda di sonno, cullati dolcemente fino a non sentire più in testa le parole di questa buonanotte.
Buonanotte di plastica."

Quelle parole se le portò via il vento, e Alessandro si svegliò il mattino dopo con due cose in testa, prepotentemente fisse proprio al centro della sua testa: una gran confusione e un fortissimo mal di testa. Raccolse le sue poche cose, gettò la bottiglia vuota e qualche bozza appallottolata per il nervoso nella pattumiera, rimise le scarpe e andò via. Salì in moto ma era così distratto dal mal di testa che non si rese conto che quella che aveva imboccato non era la strada per casa. 

mercoledì 1 aprile 2015

Attraverso la notte

Quando le luci della città iniziano a spegnersi una dopo l’altra, da qualche parte un nottambulo vorrebbe fare lo stesso, ma proprio non ce la fa, così è costretto a muoversi, fare qualcosa, pur di non cedere alla noia che comunque lo lascerebbe sveglio. Così, delle ombre vagano solitarie per le strade, silenziose, si comportano come turisti al museo e osservano meravigliati, camminando lentamente, la grande tela che si allarga dove l’occhio arriva e mira. Vagano finché non è così notte tarda da divenire mattina presto, spesso vedono l’alba, brindano col sole che sorge con un sorriso, o un pensiero che gli lanciano contro per vederlo risplendere sotto la luce dei suoi raggi freschi sull’orizzonte davanti a loro.
Alessandro quella notte non aveva dormito per nulla; dopo essersi steso nel letto ed essersi rivoltato due o tre ore nelle coperte senza trovar pace, aveva deciso di mettersi qualcosa e uscire e camminare un poco sotto la luce dei lampioni che ormai erano diventati il suo sole di plastica da qualche tempo a questa parte. Mise un jeans ed una maglia di lana che coprì con una giacca a scura e pesante pescata a caso dall’armadio e uscì di casa dando un’occhiata all’orologio davanti all’ingresso: le due di notte. Scese per le scale in silenzio per tutti i tre piani e quando mise piede in strada lanciò il suo sguardo ovunque il suo collo gli permettesse. La vita del giorno è distratta, rumorosa, sta in qualche cartaccia lasciata per terra e calpestata, in qualche bicchiere vuoto ben nascosto sotto la luce di un lampione, nelle case piene di buio tutt’intorno; la vita della notte sta nel guardare ciò che il giorno rende accecante col suo sole lontano nello spazio che splende a milioni di gradi. Forse è meglio una stella a duecentoventi volt.
Dopo essersi seduto al centro della strada dove poche ore prima persone di tutte le età camminavano e chiacchieravano solo per poter invidiare meglio quelli che riuscivano a dormire quella notte, andò a mettere i suoi pensieri sotto l’arco che gli alberi sul lungomare formavano lievemente sospinti dal vento e iniziò a canticchiare. Fra un passo e l’altro, Alessandro fu corroso da una domanda dolorosa: cosa sognerei se potessi dormire adesso?

 Si appoggiò con una spalla al palo che segnalava la fermata dell’autobus e aspettò che una linea qualsiasi si fermasse e aprisse le portelle, la destinazione era ben poco importante: voleva solo del tempo per poter pensare a quella domanda. Cosa sognerei se potessi dormire adesso?
 Dopo una ventina di minuti a pensare a quella domanda e maledire i trasporti pubblici si rese conto che erano le tre e che a quell’ora gli autobus non circolano, così dissimulò l’imbarazzo con la folla di foglie sparse a terra come potessero deriderlo e scese sulla spiaggia appena a due passi dal lungomare. Come un invitato che non sa quando è il momento di lasciare la festa, l’inverno non voleva lasciare spazio alla primavera, si era accomodato con molta risolutezza fra le vie della città, fra gli alberi che cercavano il sole tutto il giorno cercando di spostare le nuvole muovendo le frasche al vento. Alzava la voce e rideva forte scuotendo le spalle ad Alessandro, che intanto aveva abbottonato il giubbotto fino al collo; per il gran freddo che il suo tocco portava e non se ne andava, gli restava dentro, sopra il petto, sulle spalle, nella pelle. Alessandro scese i gradini di marmo un po’ consumati e sporchi facendo attenzione a dove metteva i piedi perché la luce dei lampioni iniziava a scemare e quando arrivò a metter piede sulla sabbia fredda si sfilò le scarpe, fece una piccola piega ai pantaloni e si avventurò a piedi nudi, poco sorpreso del freddo che dai piedi gli saliva alle gambe, verso le barche attraccate al molo lì vicino. Affondando piedi nella sabbia sentiva tutto il freddo del mare di cui ai pesci del mare non doveva importare proprio nulla, difesi dalle correnti d’acqua più calda. Si avvicinò alla riva e si sedette sulla sabbia a scegliere le pietre più lisce e levigate da poter far rimbalzare sull’acqua, occupò così una decina di minuti, cercando, lanciando, contando. Provò a sentire le parole della mamma nelle onde, si stese per raccoglierle dal bagnasciuga che gli lambiva i piedi quando qualche onda più audace si spingeva verso terra.
Non sentì la sua voce chiamarlo per nome, non la sentì rimproverarlo per essersi coperto troppo poco quella sera, non la sentì gridargli contro di andare a letto perché era tardi. La prima volta che Alessandro aveva provato la tortura dell’insonnia era proprio dopo la morte della madre; voleva poterla almeno sognare, crederla ancora viva, in quei frammenti di vita diurna che nella notte si mischiano coi ricordi, le paure più intime, i desideri più celati. Non gli restava che restare sveglio e rivolgerle qualche pensiero tenero per tenerla viva nella sua memoria. Ogni uomo ha la sua grande paura, e più grande è l’uomo, peggiore è la paura; Alessandro non voleva dimenticare. Combatteva ogni giorno contro la paura di dimenticare il testo di una canzone che non sentiva da tempo, dimenticare dove aveva lasciato le chiavi di casa, il nome di una vecchia conoscenza, un dettaglio d’infanzia… Ricordarsi di essere Alessandro, ricordarsi della sua vita, era ciò che lo rendeva Alessandro, quell’Alessandro in quel momento, in quel luogo, con quella storia alle spalle, con quella storia davanti, co quel momento di ansia, smarrimento e insonnia fra le mani. Era la madre ad avergli messo i testa la paura di dimenticare; la vide sparire e farsi sempre più sottile sotto le coperte sempre più spesse, poggiando la testa su un cuscino che le fece dimenticare sempre più cose, fino a farle dimenticare del proprio figlio. Provò fortissimo a sentire la voce della madre nelle onde, ma o forse il cielo e il mare si toccano troppo lontano all’orizzonte, o forse lui non fu capace di ascoltare sua madre nemmeno quella notte di Marzo.
Prese la testa fra le mani e si mise a guardare due pescatori, forse padre e figlio, che non molto distanti, iniziavano a preparare l’attrezzatura per la pesca. Per noia si avvicinò a loro e fu terzo fra cotanta famiglia. Diede anche lui una mano a preparare la barca, così, fra una nassa da pulire e una rete un poco aggrovigliata da riordinare, i tre parlavano fra loro in dialetto del più e del meno, ridevano, scherzavano, dimenticandosi dei loro problemi: insonnia e crisi. Anche i pescatori si erano ridotti a non dormire la notte in attesa del giorno: poco pesce, troppe bocche da sfamare. Anche la loro era di troppo a volte, così la dovevano lasciar vuota per riempire di più quelle della famiglia.
Spinsero la barca in acqua dopo una buona mezz’ora di lavoro e chiacchiere che proseguirono mentre prendevano il largo. Con un clandestino a bordo i remi si facevano più pesanti, ma non di molto, nelle spalle e nelle braccia allenate dei due pescatori, ma Alessandro si offrì comunque di sostituire il più giovane. Dopo aver fatto girare la barca due volte su sé stessa Alessandro si mise a ridere coi suoi compagni e lasciò di nuovo il remo al ragazzo, così tornarono a procedere dritti, anche se con qualche scossone come su una mulattiera dei mari. Andavano lontano, oltre il mare che la vista esclude dalla riva. Andando verso il sole, spezzando le onde contrarie, ad Alessandro pareva di andare a prendere il sole per i capelli e portarlo a forza sul palcoscenico delle cinque del mattino.
Alessandro capì tutto da sdraiato, mentre ascoltava un racconto d’infanzia del più vecchio dei due pescatori. Gli occhi si facevano pesanti.
Capì le stelle, capì la terra, capì i pesci, il mare,  l’amore, il capire, era tutto legato; poi l’alto ed il basso delle onde si fecero notte negli occhi di Alessandro, che finalmente trovò la forza di abbandonarsi al sonno giunto con l’alba della prima vera primavera che apparve quell’anno. Con l’alba, Alessandro perse anche ciò che il dormiveglia gli aveva detto: le stelle e la terra tornarono gli opposti, i pesci tornarono in mare, il capire abbandonò l’amore, ma Alessandro prese a sognare abbastanza forte che il mare, sotto, s’agitò intuendo il tesoro che teneva in sella e lo lasciò andare oltre di sé, dove le stelle e la terra si baciano, dove i pesci camminano sulle acque e dove finalmente si capisce l’amare.

mercoledì 18 febbraio 2015

Curami

Ogni notte, ti prego, prendimi, stringimi, quando c'è il temporale farò finta di avere paura per un tuo bacio, non lasciarmi a terra, qui, steso, inerme, scomposto, cadavere.
Dormirai e ti sorveglierò il sonno da sveglio, fra un assolo e l'altro di questa canzone che mi suona in testa chiuderò gli occhi e vedrò te, i tuoi capelli, passarmi davanti, velarmi per un attimo il viso.
Farò finta di dormire con un braccio sul tuo corpo perché svegliandoti tu rimanga ancora un poco accanto a me pur di non spostarmi, per non lasciarmi nella nausea che ogni abbandono porta, per non lasciarmi da solo con la carta e la penna per non scrivere queste cose, queste righe sbronze, per non batterle al computer pensando di suonare il piano anziché la tastiera, trovando il mio tempo, facendo l'accordo dei verbi e dei soggetti dimenticando i diesis della logica e suonando coi tasti scassati senza senso che le mie mani battono fregandosene, andando avanti, affamate dello spazio a destra di ogni parola precedente, di ogni lettera.
Ed io vorrei solo che finisse l'attesa per rivederti, per ingannare il tempo mi vesto per uscire a fare un giro a piedi: la maglietta no, la felpa no, la camicia sì, camicia di forza, no, metto la giacca, esco e sento la luce, vedo l'aria, tocco il mio disagio e finisco gamba dopo gamba a pestare i piedi alle onde del mare sul bagnasciuga e torno a casa quando sento la fame farvi viva in questo corpo morto, torno su per le scale e vorrei non tossire così quando la polvere cerca di uccidermi; a baciarsi sotto la pioggia ci si prende la ruggine, fanculo i film.
Vorrei che questo stridere continuo ed incessante si fermasse nelle mie orecchie, questo rullare di tamburi infinito che non porta nessun colpo di scena, nessun momento cruciale, niente, niente, NIENTE, solo altra attesa per attendere in un angolo.
La rabbia dei ragazzi del '68 mi percuote l'animo, i dissidi interiori dei migranti sui barconi, la disperazione del conto in banca del mio vicino, veleni, acidi, disturbi dissociativi, depressioni, ansie latenti, complessi di Edipo silenti, shock importanti, colpi al cuore, colpi di scena, colpi di pistola, tutto, tutto, TUTTO mi invade, avvelena, corrode, uccide, lacera, sfilaccia, divora, colpisce, squarcia, affligge, Guernica cerebrale.
Poi una luce da guardare per sempre che anche i ciechi vedrebbero e vedendone prenderebbero ad accomodare gli occhi su ogni dove in ogni luce, guariti; hai varcato di nuovo la porta di casa e sei di nuovo qui. Mi sollevi da terra e mi chiedi che scrivo e perché piango. Ora che sei qui, loro, quelle cose, quei pensieri sono via, annullati come l'ombra alle dodici. In mente tabula rasa. Elettrificata.
Ma loro verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove, ma intanto adesso CURAMI.

giovedì 1 gennaio 2015

Splendide previsioni

Sentivo il suo calore sulla pelle, forte, e cercando di seguirne il contorno con gli occhi mi facevo male. Non sentivo più il freddo anche se ero seduto sugli scogli e tirava un forte vento di maestrale; la brezza mi spazzava il viso e trasportava qualche goccia salata dal mare al mio viso per fare compagnia a qualche lacrima solitaria che cercava il passaggio a Nord-Ovest verso il vero e proprio pianto.
Un gabbiano velocissimo scende in picchiata e prende un pesce al volo e risale verso l'ultima opaca sagoma della luna, che ora va a donare altre notti felici ad amanti altrettanto felici e ad amanti divisi senza far distinzione: la luna, primo giudice imparziale, regala notti a tutti, noi stupidi o noi saggi a farle diventare brutte o belle notti.
Perché non parliamo, perché parliamo troppo, perché guardiamo ma non osserviamo, perché sentiamo ma non ascoltiamo, perché sappiamo a memoria il primo canto dell'Inferno, ma non l'ultimo del Paradiso, dell'amor che move il sole e l'altre stelle, perché scrivere perché ci è più facile che scrivere "per chi".
Per chi?
Per chi? Per te.
Allora cosa?
Tutto quello che ho, anche il mio sangue.
Perché?
Perché per un po' hai tenuto insieme i pezzi in cui mi sono rotto, cadendo.
E per un attimo il mio pensiero si era fatti così forte che ho potuto sentire un braccio posarsi sulla mia spalla, intorno al mio collo, e le tue labbra posarsi sulla mia guancia. Mi sono girato ed una folata di vento mi ha carezzato; era solo un altro ricordo salato che scivolava via.
Una nave solca il mare di primo mattino, suona la sirena due volte e vorrei che fosse la tua voce a chiamarmi, ma ti ho persa come appassisce una rosa che non accudisci, ti ho rovinata come quando si rompe la corda ad una chitarra, ti ho spenta, ho spento uno dei due soli che prima sorgeva all'alba del mio mattino, quel supplemento di energia quando al mattino il traffico ti rende esausto prima ancora di iniziare la giornata. Ogni giorno c'erano splendide previsioni; non temevo la pioggia, la neve, il caldo, ogni giorno mi svegliavo e anche se fuori c'erano venti gradi sottozero, dentro ne avevo diecimila in positivo.
Poi mi sono guardato bene attorno ed invece l'alba non era ancora arrivata e il fuoco che mi ero acceso si era spento; non un sole lontano chissà quanti milioni di chilometri si era acceso sul fondo dei miei occhi, ma uno più vicino, e più grande, e più caldo, era tornato a splendere a centoventi battiti al minuto.